Come la scuola in ospedale può aiutarci a rileggere l’esperienza didattica delle classi durante l’emergenza sanitaria Covid-19
Come società, ci chiediamo inevitabilmente quali saranno le conseguenze del “distanziamento sociale” dovuto al Covid-19 sui giovani. Questa domanda rimbalza da un notiziario tv ad un altro e da una testata giornalistica ad un’altra, e ci arriva come una domanda “nuova”, stimolata da questa emergenza sanitaria. Tuttavia, questo interrogativo non è per tutti gli alunni un interrogativo “nuovo”. Gli studenti in lockdown non sono i primi alunni a “perdere” la scuola perché costretti a casa. Ci son sempre stati altri alunni costretti a casa, e sono quei giovani alunni con malattie croniche e/o complesse a carico, che perdono mesi o anni di scuola per via delle terapie e delle loro condizioni cliniche e che quindi frequentano la scuola in ospedale (SIO). In ospedale l’alunno fa scuola mentre è a letto, a volte anche mentre fa le terapie o aspetta di fare un’operazione.
Con la riflessione in merito agli alunni ospedalizzati, non si intende certo attribuire meno valore all’esperienza che stanno vivendo gli alunni della scuola “tradizionale” in questo momento storico, piuttosto il contrario. Si intende andare a sottolineare come si debba imparare da esperienze e metodologie diverse e in questo senso la SIO rappresenta un ottimo contenitore di esperienze da cui si può imparare qualcosa di utile per tutti i bambini e ragazzi che stanno vivendo questa emergenza sanitaria, in casa, in un’aula mezza vuota o dentro una stanza d’ospedale.


Cosa possiamo imparare dalla SIO che potrà esserci utile per l’attuale emergenza sanitaria?
La SIO ci insegna che:
Non è vero che agli studenti “non piace andare a scuola”; ci sono addirittura alunni che chiedono di fare i compiti e studiare quando stanno facendo la chemioterapia o sono ricoverati per un’operazione chirurgica o in condizioni di fine vita; questo ci deve far riflettere su come la scuola non sia solo un’occasione di “apprendimento”, ma di “sperimentazione”. La scuola è un modo per sentirsi “vivi”, per lasciarsi “incuriosire”, per “trovare senso” in una situazione che talvolta un senso sembra non averlo.
Che si può fare scuola ovunque; che non esistono solo “spazi” e “tempi” dedicati e che ci si può rinnovare nella didattica e nell’approccio ad ogni alunno.
Che la scuola è anche “appartenenza” e “relazione” e che non si può essere “disconnessi” perché si ha una malattia o c’è un’emergenza sanitaria ma bisogna trovare nuovi modi di stare connessi. Questo ce lo insegna una ricca mole di letteratura scientifica che mostra quanta sia la sofferenza dell’alunno ospedalizzato quando si sente dimenticato dalla scuola e dalla classe. Non possiamo permettere che questo accada anche agli alunni fuori dall’ospedale: bisogna aiutarli a sentirsi parte della classe, a sentirsi attivi, a offrire occasioni di socializzazione.
Che la didattica “tradizionale” non sempre funziona, e che, però, non basta un tablet o un computer a rendere “innovativa” la didattica. Bisogna sporcarsi le mani, essere creativi, saper agganciare l’interesse dei ragazzi e rivedere il proprio modo di trasmettere i contenuti. In ospedale capita, a volte, che si provi a connettere l’alunno alla classe di appartenenza per fargli salutare i compagni o fargli seguire qualche lezione. Tuttavia, questo in alcuni casi non viene apprezzato dall’alunno ospedalizzato, per mille motivi. Il primo tra tutti è che non basta un computer acceso per far sentire l’alunno “connesso” e “presente”. Sono necessarie la condivisione, la discussione, il confronto, il gioco, lo scherzo, e tanto altro.
Possiamo osservare questa emergenza sanitaria mentre scorre di fronte ai nostri occhi, oppure possiamo pensare a reinventarci, come psicologi, come educatori, come insegnanti, genitori e così via. Reinventarci fa paura, perché comporta sentirci in disequilibrio per un po’, ma talvolta è necessario per fare il passo successivo. “Reinventarsi” non significa che quello che facevamo prima non andava bene o non andrà mai più bene; forse significa soltanto che è il momento per provare qualcosa di diverso. Se un bambino o un ragazzo riescono a fare chemioterapia e scuola insieme, noi tutti possiamo sperimentarci in nuove forme di didattica o sostegno all’alunno.
Possiamo imparare da questa emergenza sanitaria a non far sentire gli alunni come abbiamo fatto sentire (e a volte facciamo ancora sentire) gli alunni ospedalizzati.
E, in futuro, quando tutto questo sarà finito, ricordiamoci ancora di quello che la SIO ci ha insegnato e che gli alunni in ospedale stanno ancora lì, nel loro personale “lockdown”. Ricordiamoci di loro e teniamo conto di quello che il Covid-19 ci ha insegnato; di quanto siano importanti la presenza e la partecipazione.
Oggi sono tutti gli alunni ad essere in emergenza educativa. Domani lo saranno solo alcuni, ma saranno altrettanto importanti.


Dott.ssa Lucrezia Tomberli
Psicologa e Dottoranda in Scienze della Formazione e Psicologia presso l'Università degli Studi di Firenze. Durante gli studi ha approfondito il tema della psico-oncologia e del lutto e ha conseguito un Master universitario di II livello in Cure palliative e Terapia del dolore presso l'Università di Torino. Sia a livello clinico che di ricerca si occupa di malattia nel ciclo di vita, con particolare attenzione alle problematiche psicologiche correlate all'esperienza di malattia.